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Leo Longanesi e la figlia del tipografo.

Oggi vi parliamo di Leo Longanesi, un personaggio fra i più interessanti che abbiano segnato il panorama culturale italiano, un tipo di carattere, per giocare con i termini dell’arte della tipografia che sapeva coltivare con gusto deciso e impeccabile, declinandola su progetti editoriali all’avanguardia.

Scrittore, editore, direttore di riviste e curatore di collane editoriali, Longanesi nacque a Bagnocavallo nel 1905 e morì a Milano nel 1957. Ha sempre mantenuto intatta la sua capacità di essere nello stesso tempo profondamente radicato nella provincia e attento scopritore delle novità più interessanti del panorama culturale internazionale.

Pur avendo sostenuto il fascismo, la sua anima da esteta gli faceva prendere le distanze dalle sue manifestazioni più plateali con frasi come: “Dio ci scampi e liberi dagli archi di trionfo e dai fasci coi festoni”. Eppure, narra la leggenda che fu proprio lui a dare uno schiaffo al maestro Arturo Toscanini, quando si rifiutò di suonare “giovinezza” in apertura di un suo concerto a Bologna. Ma Longanesi era così, un intellettuale fondamentalmente libero e totalmente incentrato sui propri sentimenti, sui propri gusti e sulle proprie idiosincrasie. Oltre a definirsi “un carciofino sott’odio” per la sua bassa statura e per lo spirito caustico che lo contraddistingueva, Leo Longanesi amava dire di essere così desideroso di essere al centro dell’attenzione che ai matrimoni avrebbe voluto essere la sposa, e ai funerali avrebbe voluto essere il morto. Del resto ci vogliono una personalità e un gusto molto marcati per riuscire a fondare in pochi anni, perché in fondo è morto davvero giovane, riviste che sono state all’origine della stampa periodica italiana.

Nel suo libro “Parliamo dell’elefante” (di questi tempi è l’unico grosso animale di cui si possa parlare senza rischiare la pelle, aggiungeva nell’introduzione) Longanesi riportava l’editoriale con cui accompagnava nel 1937 la nascita di Omnibus, il primo settimanale italiano stampato in rotocalcografia: “È l’ora dell’attualità. È l’ora delle immagini. Il nostro nuovo Plutarco è l’obiettivo Kodak, che uccide la realtà con un processo ottico e la fissa come lo spillo fissa la farfalla sul cartoncino. Oggetti e persone, fuori del tempo, dello spazio e delle leggi di casualità divengono una visione. La fotografia coglie il mondo in flagrante. Diamo tante immagini accanto a testi ben fatti: ecco un nuovo genere di giornalismo.”

Nei soli due anni in cui è vissuto, affossato da un decreto del ministero della Cultura Popolare, Omnibus è diventato il prototipo della stampa periodica di qualità: merito delle firme che lo affollavano (in ordine alfabetico citiamo soltanto Brancati, Flaiano, Montanelli, Moravia, Pannunzio, Savinio, Soldati), ma soprattutto del direttore che proprio come un vero direttore d’orchestra assemblava il lavoro di tutti questi grandi solisti, assegnando gli articoli, decidendone il taglio e lo stile. Tanto che una volta Montanelli gli disse “A questo punto perché non lo scrivi direttamente tu?” e Longanesi gli rispose che per scrivere un articolo di attualità avrebbe dovuto mettere sul foglio parole come “in quel giorno accadde che”, e lui non avrebbe sopportato che dalla sua penna uscissero certe banalità.

All’ingresso italiano nel secondo conflitto mondiale Longanesi rispose con uno dei suoi leggendari aforismi di avere “molta fiducia nella nostra incapacità”, e subito dopo la guerra si trasferì a Milano dove fondò la casa editrice che porta ancora oggi il suo nome e la rivista Il Borghese. Nell’anno della sua morte, avvenuta per un infarto alla scrivania di lavoro nel 1957, l’editore milanese Scheiwiller pubblicò nella collana “All’insegna del pesce d’oro” un pezzo che Longanesi aveva scritto su “L’Italiano” e che si intitolava “lettera alla figlia del tipografo”.
Con la tipografia Longanesi aveva sempre avuto un rapporto molto stretto, da raffinato conoscitore che sapeva sempre quale carattere fosse il pi

ù indicato per esprimere un concetto, uno stile, o l’estetica di cui un giornale avrebbe dovuto essere il portavoce. Lo sottolineò nella sua frase che ogni studente di tipografia e design dovrebbe studiare per comprendere l’importanza della scelta dei caratteri: “Ora non è più tempo di bastoncini. Con questa libecciata fascista ci vuole ben altro. Solo Bodoni tutt’al più può resistere in piedi, con quelle lettere che tagliano come spade, con quel carattere austero, regolare, classico e un po’ freddo, come un doppiopetto da grande parata”.

Il librino di Scheiwiller era arricchito da un’illustrazione di Alberto Savinio, il fratello scrittore e pittore di De Chirico, e dalle incisioni dello stesso Longanesi, che era anche un caricaturista dallo stile che doveva molto ai ritratti espressionisti di un George Grosz.
Insomma, un personaggio dalle mille sfaccettature, che fra grafica, riviste, libri e tipografia dovrebbe entrare di diritto nel pantheon dell’editoria italiana. Anche se lui nel pantheon ci starebbe scomodo, così come nei finali classici delle favole: al “vissero tutti felici e contenti” lui avrebbe sostituito il suo caustico “vissero infelici perché costava meno”. Ed è così che chiudiamo il nostro omaggio a Leo Longanesi.

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